
Luoghi e Ricordi del Trauma. Giornata della memoria
“E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire”
(Primo Levi, I sommersi e i salvati)
Il Giorno della Memoria commemora lo sterminio nazista del popolo ebraico. La persecuzione nazifascista provocò una ferita traumatica in tutti i settori della società – famiglia, luoghi di lavoro, città, cultura scienza - oltre ad una propagazione post-traumatica in tutte le età e lungo le generazioni.
In occasione della Giornata, TraumaLivingLab, con il Patrocinio della SISST, organizza un evento gratuito per riflettere sull’Olocausto e su altri genocidi più recenti ospitando interventi che propongono narrazioni dei traumi collettivi da prospettive diverse.
Chair Person
Vittoria Ardino Direttrice Scientifica Trauma Living Lab
Alessandro Lombardo Coordinatore Didattico Trauma Living Lab e CEO Psicologia.io
Intervengono
Prof. Amit Shrira, Ph.D., Bar-Ilan University, Israele | Gli effetti multigenerazionali del trauma generato dall’Olocausto: Vulnerabilità, Resilienza
Dr. Chantal Mudahogora, Canada and Rwanda | Il trauma nelle generazioni rwandesi dopo il Genocidio del 1994
Prof.ssa Patrizia Violi, Università di Bologna | Memoria e oblio: quale futuro per i siti di memoria traumatica?
Dott.ssa Elena Acquarini, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, SISST | Memoria futura e resilienza narrativa nella pandemia
Chrystal Ding, United Kingdom | "Yours is going to be healed as well" (Anche tu potrai sanare le tue ferite)
Convegno internazionale in occasione della Giornata della Memoria









Le conseguenze a lungo termine dell’Olocausto sono intrinsecamente multigenerazionali. I sopravvissuti, al crepuscolo della loro esistenza, i figli che invecchiano e il raggiungimento della maturità dei nipoti si riflettono in un cambiamento di ruoli e scambi interattivi nel sistema familiare; tali cambiamenti si strutturano in modo peculiare nelle famiglie di sopravvissuti all’Olocausto.
La presentazione esplora gli effetti del trauma dell’Olocausto sul funzionamento psicologico e fisico lungo in ogni generazione tenendo anche conto delle tappe evolutive in cui si trova ogni generazione. Si sottolineerà la dialettica tra i sopravvissuti più anziani e i loro discendenti adulti, esplorando le zone di intersezione tra vulnerabilità e resilienza.
Nonostante la maggioranza dei sopravvissuti e i loro discendenti presentino un buon funzionamento, in alcune famiglie si riscontrano delle vulnerabilità causate da fattori diversi e da scenari specifici. La mia ricerca, e studi condotti da altri, sostiene l’importanza di un modello multidisciplinare e integrato che evidenzi “chi”, “come” e “quando” avviene la trasmissione intergenerazionale dell’Olocausto.
Secondo il modello, l’esposizione traumatica dei sopravvissuti si riverbera sulla salute dei discendenti come esito di determinanti psicologiche (per esempio, PTSD genitoriale, traumatizzazione secondaria), comportamentali (le interazioni diadiche genitore-bambino, lo stile di vita), e biologiche (modificazioni epigenetiche, regolazioni neuroendocrine).
Inoltre, il modello tiene conto di quelle circostanze potenziali in cui gli effetti intergenerazionali si intensificano, cioè, di situazioni sfavorevoli specifiche. Il modello proposto rappresenta una piattaforma da cui partire per riflessioni teoriche, di ricerca, e di intervento non solo con le famiglie dei sopravvissuti all’Olocausto, ma anche con altre famiglie che devono affrontare traumi antichi vissuti dalle generazioni passate.

Sono passati 25 anni dal genocidio contro l’etnia Rwandese dei Tutsi che ha comportato la morte un milione di persone. I discendenti dei sopravvissuti, che non erano a quell’epoca nati, sono tra quelli che hanno maggiormente subito gli effetti dal trauma vissuto dalle generazioni precedenti.
Questo è emerso da una ricerca che ha esplorato gli effetti post-traumatici sia nei sopravvissuti sia nelle generazioni più giovani. Nella presentazione verrà illustrate la ricerca e l’esperienza di Chantal Mudahogora come sopravvissuta al genocidio e rifugiata in Canada.

L'intervento intende interrogarsi sul senso che hanno oggi i siti della memoria traumatica e sui possibili rischi insiti in un loro processo di musealizzazione e sacralizzazione. In particolare, in riferimento ai luoghi classici della memoria della Shoah, ma non soltanto, si rifletterà sulle varie possibili pratiche che possano rivitalizzare questi luoghi.
Nonostante la loro indubbia importanza storica e sociale, non sempre infatti essi riescono, di per sé, a comunicare il loro senso, specie nei confronti delle nuove generazioni che non conoscono per esperienza diretta i traumi lì avvenuti. Oggi, tuttavia, cominciano a moltiplicarsi esempi di pratiche di vario genere che possono aiutarci nel difficile compito non solo di trasmettere una memoria passata, ma anche, e soprattutto, di costruire una memoria viva e proiettata anche nel futuro.

Il progetto “Resistenza narrativa: Chiamateci Ismaele”, ideato da Elena Acquarini e da Alessandra Calanchi, richiama Moby Dick il cui incipit - Chiamatemi Ismaele - riguarda il narratore e unico sopravvissuto spostando, però, l’importanza sulla narrazione collettiva come strumento per dare condivisibilità all’incubo, alla paura, al cambiamento radicale che la pandemia ha imposto al nostro tessuto sociale gettando potenzialmente le basi per una futura memoria traumatica delle generazioni che stanno vivendo le varie fasi dello stress pandemico e di quelle che verranno.
Narrare è un atto sociale che può diventare veicolo di sostegno e cura attraverso la mobilitazione delle risorse simboliche che ognuno ha maturato e preferito nel tempo. Alcuni modelli di intervento psico-sociale usano le narrazioni come strumento di cura delle esperienze stressanti/traumatiche come telaio (ri)organizzante delle memorie frammentate o sfilacciate dal sovraccarico emotivo.
Ciascun simbolo condiviso può contenere un significato ed una emozione prevalentemente individuali. In questo nostro tempo abbiamo registrato una grande necessità di condivisione e sappiamo - dalla letteratura scientifica - quanto sia importante acquisire consapevolezza delle emozioni e dei vissuti complessi in situazioni di stress per canalizzarli anche in una produzione simbolica narrativa.

Sono un’artista che si fa guidare dalla ricerca, una scrittrice e una paziente che, come tanti, ha guardato alla propria vita attraverso le lenti del trauma. L’arte è il mio veicolo di contatto con il mondo, il modo di esplorare la mia realtà in connessione con l’esterno attraverso le immagini e la scrittura. In questa presentazione racconto la mia esperienza artistica vissuta in Rwanda nata dall’esigenza di raccontare che cosa capita dopo alle persone che hanno vissuto un trauma di quel tipo, cosa che, senza un interesse politico, non occupa le notizie dei media. Eppure, determina l’identità delle persone nel tempo.
Da qui il motore del Progetto che presento oggi e che si è basato sugli interrogativi: “Che cosa è successo ai bambini sopravvissuti al genocidio? Come è stata la loro vita in questi 25 anni?". Non ho voluto essere la loro voce, piuttosto il veicolo delle loro storie e, allo stesso tempo, avevo il desiderio di dare un volto alla loro storia, di usare la fotografia per rendere umani i sopravvissuti.
Volevo che le mie fotografie fossero segno di rispetto e ammirazione per la popolazione: fotografie di sopravvissuti e non di vittime. Racconti di sopravvissuti e non di vittime. Da qui nasce: “Yours is Going to Be Healed As Well”, una raccolta di storie dei sopravvissuti al Genocidio Rwandese nate durante gli incontri di counselling di gruppo coordinati da SURF (Survivors Fund). Il titolo del Progetto è una frase tratta dalla testimonianza in una seduta di counselling: “Dovrai andare in ospedale per un problema di salute, ma dopo aver sentito le storie di altri che hanno avuto lo stesso problema senti che anche tu guarirai”
